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L’Arte può sopravvivere al potere? – “La torre d’avorio”, con Luca Zingaretti e Massimo De Francovich

E’ il 1946 e a Berlino iniziano i primi processi ai nazisti. Davanti al Tribunale di denazificazione deve comparire anche Wilhelm Furtwängler, grande compositore e direttore d’orchestra della prima metà del Novecento la cui fama è equiparabile solo a quella di Arturo Toscanini. Mentre i compositori e gli artisti ebrei erano stati deportati e gli altri avevano lasciato la Germania per protesta, infatti, Furtwängler è rimasto in patria per tutta la durata del regime continuando a dirigere la Filarmonica di Berlino. Tanto basta al Maggiore americano Steve Arnold, che ha il compito di interrogare il direttore d’orchestra ed è ben determinato ad incriminarlo: pur non avendo mai preso la tessera del partito, la  permanenza del compositore in Germania è un chiaro segno del tacito sostegno a Hitler. Da queste premesse si sviluppa La torre d’avorio, spettacolo teatrale diretto e interpretato da Luca Zingaretti e tratto dal testo di Ronald Harwood, in cartellone al Piccolo Teatro di Milano fino a domenica 8 dicembre. E la domanda a cui si giunge è: fino a che punto l’Arte può davvero considerarsi libera dal condizionamento della Politica?

La torre d'avorio (da www.piccoloteatro.org)

La torre d’avorio (da http://www.piccoloteatro.org)

L’intero testo ruota attorno agli incontri-scontri incontri tra il maggiore Arnold (Luca Zingaretti) e il direttore Furtwängler (Massimo De Francovich). I due uomini non potrebbero essere più diversi tra loro: il primo è un ex assicuratore pragmatico e deciso, di poca cultura ma grandi intelligenza e sarcasmo. Il secondo è un astro nel panorama musicale e culturale dell’epoca, austero, ben consapevole della propria rara grandezza, fedele all’Arte come ideale supremo. A mediare tra i due, in un certo senso, è il tenente David Wills, ebreo tedesco scampato, a differenza dei genitori, alle deportazioni nei campi di concentramento e ora impegnato come il Maggiore negli interrogatori ai tedeschi sospettati di aver sostenuto o aderito al partito hitleriano. L’intero spettacolo si basa sul contrasto tra due mondi, tra due modi diversi di vivere e pensare. Sebbene all’inizio il contrasto pare chiaro e definito, in realtà sfuma continuamente su piani diversi, fino alla totale inconciliabilità.

MONDI IN CONTRASTO Sarebbe di grande aiuto, sul palco e nella vita, poter dividere immediatamente i protagonisti in due categorie: i cattivi e i buoni. Chi ha sostenuto tacitamente le azioni terribili del regime e chi ora cerca di inchiodare alle proprie colpe i primi. Insomma: il direttore Furtwängler e, in misura minore, i musicisti della Filarmonica da una parte, il Maggiore Arnold e il Tenente Wills dall’altra. In effetti la domanda Tu da che parte stai?  torna spesso nello spettacolo, a volte accusa e a volte giustificazione, ma sempre per rimarcare una rassicurante linea tra il giusto e lo sbagliato, gli eroi e i colpevoli. Una distinzione di cui ha bisogno prima di tutto l’americano Arnold, che ha incise nella mente le immagini degli orrori dei lager nel giorno della liberazione. Ha bisogno di colpevoli, perché punire i colpevoli di tali orrori è giusto e necessario. Semplificare fino a questo punto, però, non renderebbe giustizia alla complessità della storia. E della natura umana, ovviamente. Infatti basta poco per accorgersi che ciò che sembrava all’inizio così distintamente nero o bianco sfuma tragicamente nel grigio. Se Furtwängler è davvero stato un grande sostenitore di Hitler, pur esterno al partito, perché aiutò alcuni ebrei a lasciare la Germania e perché così tanti ne tessono le lodi di artista indipendente che mai si piegò al Führer? E se il Maggiore Arnold è interessato a scoprire la verità (quale verità, poi?), perché tanto accanimento nei confronti del direttore d’orchestra, fino ad arrivare all’umiliazione ingiustificata? Un contrasto diverso si instaura ben presto anche tra il Maggiore Arnold e il giovane Tenente Wills, che si ostina a considerare Furtwängler un grandissimo artista del suo tempo, nonostante tutto da ammirare dal punto di vista culturale e musicale, e dunque da rispettare. Un fatto che, sostiene, non può essere ignorato come invece fa Arnold, che data la sua scarsa cultura e conoscenza musicale non può far altro che giudicare il direttore come un uomo assolutamente comune, uguale a tutti gli altri. 

LA TORRE D’AVORIO Proprio nella cultura – nell’Arte, nella Musica – risiede il cuore del problema, il centro del contrasto tra Furtwängler e Arnold. Perché non ha mai lasciato la Germania quando avrebbe potuto?, chiede il Maggiore al direttore con l’intento di incastrarlo, finalmente, di portarlo ad ammettere le sue colpe con il silenzio. E invece la risposta arriva, appassionata e romantica. Perché continuare a lavorare sotto il regime? Perché serviva qualcuno che tentasse di mantenere l’Arte immacolata, un bene supremo che non deve piegarsi al Potere e alla Politica, soprattutto nei periodi bui. E’ questa la poetica colpa del direttore, dunque: essersi chiuso in una torre d’avorio, vale a dire aver pensato che l’attività intellettuale potesse slegarsi dalla vita politica e quotidiana. La spiegazione naturalmente non convince il pragmatico Maggiore Arnold: Devi dirmi qualcosa che posso capire, che i miei amici possono capire. Niente Arte come ideale supremo, niente Musica in grado di risollevare e consolare gli animi, né sinfonie come grida di libertà contro il regime. Un popolo annientato, fosse comuni, corpi bruciati, campi di concentramento: sono queste le domande del Maggiore Arnold a cui un concerto non può certo rispondere.

La torre d'avorio (da www.piccoloteatro.org)

La torre d’avorio (da http://www.piccoloteatro.org)

TU DA CHE PARTE STAI? Arnold e Furtwängler parlano lingue diverse, su piani diversi. Non possono incontrarsi né comprendersi. E la questione etica ancora attuale a cui si trovano di fronte li rende inconciliabili: l’Arte può davvero esistere svincolata dal potere? L’Arte è un valore supremo e totalizzante a cui ha senso dedicare una vita intera? Il testo teatrale non giunge ad alcuna risposta. Lo spettacolo è bellissimo, convincente, ma proprio questa mancanza lo rende incompleto sul piano emotivo. Un fatto non necessariamente negativo, se si vuole cogliere l’invito: lo spettacolo è una domanda in sospeso, un problema irrisolto. Ciascuno ha le proprie ragioni, pare dire, condannare o giustificare dipende esclusivamente da quale parte si sceglie di schierarsi. Entrambi i personaggi – Furtwängler e Arnold – risultano, a mio parere, negativi: sono chiusi in una visione del mondo personale ed esclusiva con cui cercano di inquadrare l’altro. L’incomunicabilità è evidente. Chi emerge invece come positivo è, alla fine, il Tenente Wills. Forse perché è giovane, forse perché ha vissuto sulla propria pelle la tragicità degli eventi e nonostante questo crede in un futuro (sogna di diventare professore di storia, non a caso). Perché l’amore per la musica gli permette di ammirare e capire il concetto di Arte come valore supremo di Furtwängler; così come l’orrore che ha distrutto la sua famiglia gli rende comprensibile anche il senso del dovere di Arnold. Per questi motivi Wills è l’unico in grado di comunicare davvero, di accettare l’imperfezione, di rifiutare sia l’assoluzione piena sia la condanna bieca. I preti sono uomini, possono sbagliare in tanti modi – dice Wills, con una metafora – eppure possono sempre metterti in bocca Dio.

MARCHIO D’INFAMIA In conclusione è uno spettacolo che vale sicuramente la pena guardare. La sola scena finale sa racchiudere in pochi secondi la tragedia dell’incomunicabilità, delle visioni contrastanti, dalla facilità con cui – se proprio vogliamo tracciare una linea di divisione – si può passare da una parte all’altra del confine. Per la cronaca, in realtà Furtwängler al termine del processo in cui lo si accusava di rapporti con il nazismo risultò del tutto innocente. Nonostante questo, la sua fama è ancora oggi controversa e la scelta di continuare ad esibirsi sotto il regime hitleriano è stata per lungo tempo un marchio di infamia che ha offuscato la sua grandezza. «Sapevo che la Germania era in una situazione terribile – ha dichiarato durante il processo -. Io mi sono sentito responsabile per la musica tedesca, ed è stato mio compito farla sopravvivere a questa situazione, per quanto ho potuto. La preoccupazione per il fatto che la mia musica potesse essere usata dalla propaganda ha dovuto cedere alla preoccupazione più grande di conservare la musica tedesca, di farla ascoltare al popolo tedesco. Questo popolo, compatriota di Beethoven, Mozart e Schubert, doveva ancora vivere sotto il controllo di un regime ossessionato dalla guerra. Nessuno che non abbia vissuto quei giorni può giudicare com’era. Non potevo lasciare la Germania in quello stato di massima infelicità. Andarsene sarebbe stato una fuga vergognosa. Dopo tutto sono un tedesco, qualunque cosa si possa pensare di questo all’estero, e non rimpiango di aver fatto questo per il popolo tedesco».

Chiara Beretta

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