Interviste

Freelance, guerre e giornalismo: intervista a Giovanni Porzio

L’inviato in guerra è un lavoro destinato all’estinzione? E il freelance? Guardando lo spazio che la maggior parte della stampa italiana dedica agli esteri, la risposta sembrerebbe tristemente affermativa. Ogni anno Medici senza frontiere stila un rapporto delle crisi dimenticate, ovvero conta quante delle notizie date dagli organi di informazione in dodici mesi hanno parlato di situazioni di guerra o crisi al di fuori del confini italiani. «I dati del 2012 – ha detto Giorgio Contessi di Msf al Festival di Internazionale a Ferrara, lo scorso ottobre – sono i peggiori degli ultimi dieci anni. Solo il 4% delle notizie date riguardava le crisi umanitarie». Per fare qualche esempio, gli organi di informazione italiani hanno parlato tre volte del Congo, due di Haiti, mai della Repubblica Centroafricana. Ribattere che il lettore o lo spettatore non è interessato a questo tipo di informazione mi pare, personalmente, una comoda scusa.

Giovanni Porzio e Giorgio Contessi al Festival di Internazionale, Ferrara, ottobre 2013

Giovanni Porzio e Giorgio Contessi al Festival di Internazionale, Ferrara, ottobre 2013

Chiaramente in un simile contesto la situazione del freelance si complica. La questione era balzata improvvisamente agli onori della cronaca in estate, dopo l’articolo tra provocazione e vittimismo di Francesca Borri, giornalista freelance in Siria (lettera che ha suscitato non poche polemiche e interessanti discussioni: qui un esempio). In un mondo in cui l’informazione brucia e invecchia in pochi minuti, a che scopo attendere l’approfondimento di un giornalista dall’estero, che lì raccoglie e racconta storie spesso a rischio della propria vita? Con la crisi imperante nel settore, poi, perché (sotto)pagare un freelance quando si hanno a disposizione nelle redazioni agenzie standardizzate ma praticamente a costo zero?  

Del mestiere di freelance, di guerra e di giornalismo parla anche Giovanni Porzio, da trent’anni inviato in guerra. Una delle sue ultime esperienza è stata in Siria tra settembre e ottobre 2013, la prima, invece, in Egitto nel 1981.  «E’ stato in occasione dell’uccisione di Anwar al-Sadat, presidente egiziano assassinato il 6 ottobre 1981 – racconta Porzio-. Da allora ho iniziato ad occuparmi in maniera sistematica di Medio oriente e delle aree di crisi. Mi sono fatto le ossa nella guerra civile Libano,durante l’invasione israeliana. Ho seguito le guerriglie in Eritrea, Angola, le guerre africane. Dai primi anni ’80 fino a oggi ho seguito gli scontri in Kosovo, Bosnia, Iraq, Golfo, Afganistan, Gaza. Non ne ho persa una…».

Giovanni Porzio

Giovanni Porzio

 Come è cambiato in trent’anni il lavoro di inviato?

«E’ cambiato radicalmente il modo di lavorare già dal 1991, con l’esplosione delle tv internazionali e dell’informazione in tempo reale. Il flusso di notizie si è fatto più veloce e la tecnologia ha accompagnato questa evoluzione. Nel 1981 ero partito con macchina da scrivere, risma di fogli e pacco di ritagli di giornali con tutte le informazioni che potevano servirmi sulla storia, l’economica, la politica e le notizie d’attualità dell’Egitto. C’era il problema enorme della trasmissione alla redazione: i telefoni non funzionavano, si usava il telex. Dopo aver scritto il pezzo in camera mi mettevo in coda alla reception dell’albergo in cui stavo con gli altri giornalisti, ricopiavo il testo al telex, una volta perforata la striscia gialla chiamavo la redazione e inserivo la striscia dalla parte opposta per trasmetterla. Spesso cadeva la linea, a volte quando mancava pochissimo alla stampa del giornale: trasmettere il pezzo alla redazione era la cosa più angosciante. Rispetto ad ora siamo su altro pianeta: ho un telefono satellitare tascabile con cui mi collego da qualunque parte del globo, invio il pezzo in pochi secondi collegandolo al pc. Internet poi ti consente di tenerti costantemente aggiornato, in tempo reale. Questo è l’aspetto positivo. Quello negativo è che  le informazioni si bruciano in pochi minuti e c’è meno tempo per approfondire, parlare. A me piace l’inchiesta, mi piace approfondire, raccontare storie. Serve tempo per farlo, motivo per cui ho sempre lavorato per un settimanale, e non per quotidiani».

L’interesse per la politica estera è però, almeno in Italia, scarso, così come lo spazio che gli viene riservato dagli organi di informazione. La sensazione è che il mestiere di inviato sia in via di estinzione.

«Nei periodi di crisi ci si rinchiude nel proprio campicello e si ha meno voglia di guardare fuori e sì, il lavoro di inviato è forse in via di estinzione. Il mondo dei media sta vivendo un grande momento di trasformazione, non si capisce ancora dove andremo a finire. Sicuramente i nuovi media sono il futuro, il giornale cartaceo è destinato secondo me a scomparire. Anche i grandi giornali stranieri hanno una redazione online che è preponderante. La cosa non mi sconvolge: la carta è solo un supporto, è questione di abitudine. Sta cambiando il modo di fare giornalismo. Effettivamente attualmente il freelance, soprattutto in Italia, non sa come sopravvivere. Non vengono pagati oppure sono pagati pochissimo: c’è qualcosa che non va in questo. L’informazione per essere tale deve essere di qualità, l’informazione di qualità richiede professionisti e i professionisti spendono tempo e cultura per un prodotto che deve essere pagato. Si troverà un sistema, una strada. In Italia il lavoro del freelance è considerato quasi un hobby. Solo qui c’è questo scarso interesse per gli esteri, e invece continuiamo a dedicare paginate e paginate di inchiostro al blog di Grillo, a polemiche sui ministri, alla dichiarazione di questo o quel politico. Non sono notizie che interessano alla gente».

E’ un problema creato dall’editore o dal direttore che danno importanza a queste notizie e non ad altre, oppure è il lettore a non essere interessato, o forse abituato, ad un’informazione diversa?

«E’ il cane che si morde la coda. Forse ho una visione distorta del mondo, ma non posso pensare che la gente vada a comprare il giornale per sapere cosa hanno detto Lupi o Giovanardi. Se è così allora arrendiamoci: così è l’Italia, e basta. Ma non posso pensarlo! Infatti vedo che quando si parla dei veri problemi della gente, anche in certe trasmissioni tv con un certo seguito, c’è interesse. Alla fine devi dare al lettore notizie che tu reputi importanti, non solo quello che il lettore vuole leggere».

Forse è questo il vantaggio di internet: se quello che mi offre un giornale non mi soddisfa, posso selezionare l’informazione che ritengo interessante da più fonti.

«Ma internet è un gran bazar in cui devi sapere cosa compare: devi essere culturalmente attrezzato per capire se sei davanti a notizie inventate, serie o alla propaganda più bieca. La fonte è fondamentale. C’è una massa di informazione orizzontale, senza distinzione. Il giornalista online dovrebbe distinguere quelle credibili dalle altre. E’ difficile orientarsi, soprattutto per chi non è del mestiere. Credo che già nelle scuole bisognerebbe proporre corsi di informazione o per l’uso di internet».

Abbiamo detto che in trent’anni il modo di fare il reporter è radicalmente cambiato. E il modo di fare la guerra, invece?

«Moltissimo. Prima esistevano due grandi blocchi uno contro l’altro, erano guerre con due opposti campi a confronto, se non proprio due eserciti distinti. Dopo il crollo del muro di Berlino le guerre sono diventate guerriglia, spesso urbana. Non c’è più il nemico: ci sono tanti nemici, tante insidie. Spesso regna il caos totale e il giornalista si trova in una situazione molto più difficile e pericolosa. In passato, tra l’altro, il giornalista veniva accolto in certo senso a braccia aperte, se non dall’esercito almeno dai civili che volevano far sapere cosa realmente succedeva. A un certo punto, soprattutto dopo il crollo delle Torri gemelle, i giornalisti sono diventati target, obiettivi. C’è stato un momento in cui il giornalista è diventato preda».

Ma l’atrocità della guerra è rimasta atrocità della guerra.

«La guerra è sempre stata atroce, lo è ancora e lo sarà sempre purtroppo. Il tentativo ora è quello, illusorio, di dare vita ad una guerra asettica, in cui i caduti al di fuori dell’esercito sono ridotti al minimo. Ma nell’ultimo secolo il rapporto tra vittime militari e civili si è capovolto: una volta morivano i soldati, oggi muoiono i civili. E con la guerra elettronica e dei droni questa inversione sarà sempre maggiore».

Come fai a tornare a casa dopo le atrocità a cui assisti? Intendo dire, come concili la vita lavorativa e quella “quotidiana”, così distante dalla guerra e dalla morte?

«La distanza è bestiale: ho visto persone morire tra le mie mani, ho visto persone squartate, a pezzi… e ne scrivo, racconto. La speranza è che qualcosa arrivi, qui, a chi legge. Se non avessi più speranza, non avrei più motivo di continuare a fare questo lavoro e a rischiare la vita. Il mio mestiere è informare, far capire alle persone che restano qui che il problema della spesa al supermercato o un qualunque altro problema di cui ci si lamenta non sono tutto. C’è un altro mondo fuori, che riguarda i quattro quinti della popolazione mondiale che non sta bene come noi. Con il tempo ci si abitua a tornare».

 Questa passione per l’informazione,  questa sorta di missione, la vedi anche nella nuova generazione di giornalisti?

«Ci sono tanti aspiranti giornalisti che mi chiedono consigli, ma in Italia il quadro non è roseo. Credo che se uno veramente ha il fuoco dentro, il modo di fare questo mestiere lo trova. Ai miei tempi era più facile: meno concorrenza, pochi giornalisti laureati che sapevano più lingue… Tanti giovani oggi hanno finito la scuola di giornalismo, hanno una laurea e ambiscono ad entrare in una redazione per fare i giornalisti. Lo trovo molto sbagliato, non funziona così. Io ho iniziato a fare il giornalista perché amavo viaggiare e scrivere, due cose che continuo a fare e che mi piacciono. Il lavoro di redazione è arrivato quasi secondariamente. Amavo viaggiare e poi scrivevo quello che vedevo, che facevo, le emozioni che sentivo. Andavo in giro a conoscere il mondo. Ora, pensa, ci sono direttori di giornali che non hanno mai messo piede fuori dall’Italia e la gente va conosce il mondo su Google Maps. Non è la stessa cosa! Devi assaporare quei cibi, stare seduto su quelle corriere: queste cose cambiano i tuo modo di scrivere un articolo. Devi aver vissuto nelle tende dei Tuareg per parlare dei Tuareg. Questo, secondo me, è fare il giornalista. Ed è l’unico modo. Tutto il resto è fare il comunicatore e lavorare nel mondo dell’informazione, che è diverso dal fare l’inviato. Se uno vuole davvero fare questo mestiere, non deve cercare un modo di entrare in redazione: deve alzarsi e andare, viaggiare, vedere, scrivere. E se le cose che scrive hanno un senso, alla fine qualcuno che le pubblica si trova. Bisogna essere determinati. Adesso è troppo comodo accendere il computer e  scrivere. Cosa scrivi? Cose che non hai visto. Serviranno sempre persone che girano per raccontare: forse non si chiameranno più giornalisti, ma la curiosità per la scoperta del mondo ci sarà sempre. E lo dico senza alcun esotismo: non serve andare in Birmania per trovare storie interessanti da raccontare. Anche nel nostro territorio ci sono. Sei in Italia? Racconta l’Italia. Se uno ha voglia di fare e raccontare, il modo si trova».

Parlando dei tuoi reportage fotografici, sul tuo sito, scrivi che le tue foto «sono state scattate con la convinzione che sia un dovere morale far conoscere ciò che accade nelle guerre e con la speranza che possano scalfire le barriere dell’assuefazione e dell’indifferenza. Perché anche nella più cupa disperazione ho sempre visto balenare un tenue lampo di fiducia nell’uomo: la caparbia certezza che l’orrore non sia inevitabile». Mi ha colpito. Dopo quello che hai visto e raccontato, davvero credi che l’orrore sia evitabile?

«Sono consapevole del fatto che le guerre sono purtroppo inevitabili e, anzi, temo che in futuro ci saranno guerre per acqua, risorse. La mia speranza è che sia possibile in qualche modo limitare le atrocità nei confronti dei civili, gli abusi che la guerra porta. Credo non si debba abbandonare la speranza che a fare le spese della guerra non siano più i civili, le fasce più deboli, le donne e i bambini. Questo è un insulto all’intelligenza dell’uomo: non è possibile che nel terzo millennio si debba ancora assistere a stragi di bambini e civili. Ma questo non riguarda solo la guerra, perché le principali cause di morte sono ancora malattia e povertà. E’ intollerabile, perché noi abbiamo le risorse per risolvere questi problemi e non lo facciamo. Queste sono le cose che ritengo intollerabili. La guerra purtroppo fa parte dell’uomo».

Chiara Beretta

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